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Parrocchia Mater Dei.
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Nella foto: Don Flavio Peloso al Convegno di Montebello (Pavia), il 23 ottobre 2014.

Relazione di Don Flavio Peloso al Convegno sulle opere di carità educativa e assistenziale di Montebello (Pavia), 22-26 ottobre 2014.

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Il dialogo con l'attualità sociale ed ecclesiale è per noi orionini costitutivo e “costituzionale”[1] del nostro carisma e della nostra tradizione di congregazione.
La “pianta unica con molti rami”, la Piccola Opera della Divina Provvidenza, ha la sua vitalità nella linfa interiore, nel carisma e nello spirito che l'anima, ma anche nel contesto ambientale e nel clima storico in cui la pianta cresce, si sviluppa, porta frutti. Linfa e ambiente sono entrambi dono della Provvidenza.

L'attualità sociale ed ecclesiale stimola la profezia del carisma orionino in tre direzioni:

  1. verso nuove opere “secondo i tempi nuovi”,
  2. verso nuove modalità e nuovi metodi di operare,
  3. verso nuova identità (e formazione) di coloro che operano.

Mai come oggi è stato difficile fare un discorso sull'attualità sociale ed ecclesiale per la complessità dei suoi fenomeni e per la loro fluidità-liquidità di mutamento continuo.
Guardando all’attualità, si può osservare che il contenitore ideologico della cultura attuale è globalizzato, mentre il contenuto, il vissuto, è molto frammentato, instabile, liquido.
Cercherò di segnalare alcuni fenomeni ampi e generali dell’attualità sociale ed ecclesiale che stimolano la particolare profezia del carisma orionino, consapevole che essi si realizzano con molte varianti nelle singole nazioni e nei particolari ambiti sociali ed ecclesiali.

 

1.   Il contesto culturale è caratterizzato dal pensiero debole,[2] 
stimola risposte caritative (educative e assistenziali) che vivano la «caritas in veritate».

Il pensiero debole diffuso e dominante costituisce oggi la minaccia principale alla vita e all’humanum. La vita umana oggi non è principalmente minacciata dall’esterno, dalle forze della natura o dai “Caino” che assassinano gli “Abele”, ma molto più al suo interno, dal pensiero debole. Esso si traduce in visione nihilista, in disistima della vita, in cosificazione (manipolazione, mercificazione, ecc.) della vita.

Il pensiero debole, oggi, rende possibile qualunque offesa alla vita, la globalizzazione dell’indifferenza di fronte a prassi di morte scientificamente programmate, socialmente giustificate e legalmente regolate:[3] la violenza contro milioni di esseri umani che sono sotto la soglia della povertà e muoiono di fame; gli squilibri economici che provocano disumanizzazione e morte; lo sfruttamento del lavoro a scapito della vita, e le tante “strutture di peccato” che coscientemente e volutamente offendono la vita umana. Si è arrivati al punto di considerare e di volere come espressione di progresso e di civiltà la morte richiesta, provocata o data volontariamente, come nel caso di aborto ed eutanasia.

Oggi occorre ribaltare con il veritatis splendor l’oscuramento della ragione e con il calore dell’amore[4] il gelo mortale dell’egoismo (omnia vincit amor).[5]
Di fronte alle minacce alla vita dei più deboli (vita nascente e senescente, limitata e malata, povera economicamente e socialmente), siamo sfidati a vivere e proporre l’umanesimo evangelico, riconosciuto dalla ragione, confermato dalla fede, assunto e trasmesso nella inscindibile circolarità di verità e carità.

Don Orione ci ha trasmesso non solo il “veritas in caritate” (Ef 4, 15) ma ancor più il “caritas in veritate”,[6] tanto affermato da Benedetto XVI come profezia efficace per i tempi attuali. Solo unite, carità e verità, si accreditano reciprocamente nel contesto sociale e culturale attuale che relativizza la verità a opinione e riduce la carità a sentimentalismo. “Solo la carità vera salverà il mondo”, cioè la carità sostanziata di verità antropologica data da natura-ragione-fede.
Teniamo salda l’unione di carità e verità sull’uomo propria del cristianesimo e di Don Orione:  carità senza verità può venire facilmente vissuta e percepita come un’oasi di buoni sentimenti, ma marginali, ristretti nel privato, soggettivi, ininfluenti. Le opere di carità per essere oggi “fari di fede e di civiltà” (Don Orione) devono essere impostate sulla verità antropologica che riguarda la persona e la vita sociale.
Nell'attuale contesto sociale e culturale di pensiero e di prassi deboli, vivere la carità nella verità aiuta a intuire che l'adesione ai valori del cristianesimo è non solo utile, ma indispensabile per la costruzione di una buona società e di un vero sviluppo umano integrale. In questo senso, le opere di carità costituiscono un fondamento di evangelizzazione. “Oggidì molti ritornano a Dio attraverso le istituzioni di beneficenza, di carità e di elevazione sociale; essi vengano conquistati alla fede dalle opere della bontà e del vero progresso”.[7]

"Senza Dio - osservava Don Orione profeticamente - si tenta invano di edificare. Il Tasso ricorda in mirabili versi questa grande verità:
            «Non edifica quei che vuol gli imperi
           Su fondamenta fabbricar umane;
            Ma ben move ruine, ond’egli oppresso
            Sol costrutt’un sepolcro abbia a se stesso».
Liberali, massoni, socialisti, lavorate, lavorate, vi  scaverete il sepolcro a vicenda. I popoli si stancheranno di voi che li pascete di tenebre, di terra, e di odio; i popoli hanno bisogno di amore, di luce, e anche di un bene che non è terreno. Il popolo si stancherà tanto di voi che basterà alzare un crocifisso perché  cada in ginocchio ai piedi del suo Dio, e torni ravveduto a mirare la Croce segno vittorioso di giustizia, di pace, di redenzione morale, economica e civile".[8]

Il pensiero debole (non capace e non interessato alla verità) e il relativismo etico (privo di valori fondanti) hanno portato allo sconvolgimento dei diritti dell’uomo e delle leggi che li salvaguardano.[9] Si moltiplicano le leggi che non tengono conto di verità/valori essenziali dell’uomo riguardanti la sessualità, il matrimonio, la nascita e la morte, la paternità e maternità e altre realtà umane fondamentali. Perso il riferimento ai valori umani naturali e razionalmente compresi, è facile ad agenzie di opinione captare e pilotare il consenso della maggioranza, unico arbitro dei diritti e delle leggi.

In tale contesto, non si tratta solo di reagire alla prepotenza di ideologie in contrasto con la visione dell’humanum secondo ragione e fede, ma di proporre l’esperienza cristiana come sale e luce di umanità. È quanto possiamo e dobbiamo fare nelle nostre comunità cristiane e religiose, nelle nostre attività educative e assistenziali. Anche Papa Francesco privilegia l’annuncio rispetto alla apologia della fede cristiana, privilegia l’esperienza rispetto alla dottrina.

Il contesto ideologico e l’etica dominante sfidano le nostre prassi educative e caritative ridonando alla strategia del “solo la carità salverà il mondo” una nuova e drammatica urgenza. Sì, perché, in questo mondo attuale di pensiero debole e di confusione etica, la carità ripropone efficacemente la verità essenziale sull’uomo, accessibile a tutti, da cui poi può svilupparsi una visione (antropologia) e un comportamento (etica) rispettosi dell’humanum.
Don Orione, “stratega della carità”,[10] spiega: “Mi pare che la carità, anche la più umile e la più modesta, sia la forza più popolare a difesa della verità cattolica; anche così si dimostra che la Chiesa è ancora viva, anche nel campo sociale, e ancora feconda come forza benefica”.[11]

 

2.   La secolarizzazione dell’attività educativa e dell’attività assistenziale
pone una sfida di qualità e di gratuità delle nostre opere.

A partire dall’Ottocento, le attività dell’educazione e dell’assistenza assistenza sono diventate attività di giustizia sociale pubblica e non più solo attività caritative e opere di misericordia. È avvenuta una progressiva secolarizzazione dell’attività educativa e dell’attività assistenziale.  Per molti aspetti, ciò è da considerare come un progresso di civiltà: educazione e assistenza da attività caritativa privata sono diventate attività di giustizia sociale pubblica; da “opere pie” sono diventate “opere di giustizia”.
In molti Stati, la previdenza statale ha in gran parte assunto l’attività educativa e assistenziale, che prima era esclusivamente opera di provvidenza e svolta per lo più da privati e istituzioni della Chiesa. Va subito osservato realisticamente che la previdenza non prevede aiuto per tutti e molti restano sprovvisti (desamparados), bisognosi ancora di provvidenza, di divina provvidenza.
Oggi nel campo educativo e assistenziale sono impegnate istituzioni statali, profit, non profit… e religiose o “di provvidenza”. Inoltre, c’è un’altra tipologia: quella di istituzioni che sono di previdenza (e sovvenzione) statale ma che sono gestite con spirito e scopo religioso. Molte delle nostre opere rientrano in questa tipologia o sono miste, in parte di previdenza e in parte di provvidenza.

La secolarizzazione dell’educazione e dell’assistenza sociale pone un interrogativo circa le nostre scuole e opere socio-caritative: perché fare noi religiosi quello a cui già provvede lo Stato? Può bastare essere buoni gestori della previdenza sociale?

La prima risposta. Le nostre scuole e opere socio-caritative sovvenzionate dallo Stato hanno senso solo se si qualificano per la loro qualità umana e religiosa nel servire le persone, solo se diventano modello e fermento culturale, politico e, specificatamente, se sono “pulpiti” di evangelizzazione. Se manca la “qualità umana e religiosa”, se non costituiscono un “modello alternativo” di umanesimo cristiano, se non sono “pulpiti di evangelizzazione” mancano della loro giustificazione carismatica e istituzionale.

La seconda risposta. Per la Congregazione di Don Orione non può bastare la prima risposta perché ha un preciso mandato istituzionale che non può eludere: “Resti ben determinato che la Piccola Opera è per i poveri”,[12] che Don Orione esplicitava come “i più poveri” cioè per sono quelli fuori della previdenza sociale, i desamparados.  Quelli che hanno protezione da altra parte, per loro v’è già la provvidenza degli uomini, noi siamo della Provvidenza Divina, cioè non siamo che per sopperire a chi manca ed ha esaurito ogni provvidenza umana”.[13]  Anche oggi, c’è bisogno di attuare questo proprium orionino. Infatti, in tutte le nazioni, anche dove il welfare è più progredito, ci sono tanti “poveri fuori legge” (di previdenza) e per loro ci vuole “una carità fuori legge”, fuori delle leggi della previdenza, cioè una carità gratuita, una divina provvidenza.

 

3.   Il secolarismo dell’attuale contesto sociale ed ecclesiale
esige la riappropriazione carismatica e apostolica delle nostre opere.

Fino a qualche decennio fa, bastava aprire un’opera assistenziale o una scuola ed essa era immediatamente un’opera caritativa, un bel segno della carità della Chiesa e della Congregazione “per portare i piccoli, i poveri alla Chiesa e al Papa per Instaurare omnia in Christo”, secondo il carisma.
Oggi, dopo l’evoluzione avvenuta, non è più automatico che un’opera assistenziale o sociale o educativa sia ipso facto un’opera caritativa-apostolica.[14] Il secolarismo non tocca solo il contesto sociale ma anche le nostre stesse opere.
Ci sono opere - anche consistenti, solide, applaudite – che sono “come tutte le altre” (mas de lo mismo), quasi prive di qualità e di significato apostolico. Proprio per questo è nato il giusto e inevitabile travaglio di tanti confratelli, le inquietudini, le impazienze e i progetti che nei Capitoli generali hanno preso il nome di “rilancio apostolico”, “riappropriazione carismatica”, “conversione apostolica” delle opere di carità. Tutti percepiamo la frustrazione apostolica quando le “opere di carità” non “aprono gli occhi alla fede” perché non hanno qualità e funzione apostolica.

Il secolarismo che permea il contesto sociale e culturale attuale ci chiede una nuova inculturazione/organizzazione delle “opere di carità” che sono lo strumento principale del nostro carisma, voluto e fissato da Don Orione e riconosciuto dalla Chiesa.[15]
E deve cambiare non solo la dinamica delle opere, ma anche quella dei religiosi e dei collaboratori laici che vi operano. Il nostro Capitolo generale parla dell’identità e ruolo dei religiosi chiamati ad essere nelle opere soprattutto testimoni”, “garanti del carisma”, “pastori”, “formatori”, “profeti,[16] con dinamiche di relazione più pastorali; parla della indispensabile formazione al carisma dei laici collaboratori.

La Congregazione è da tempo incamminata sulla via della nuova e necessaria inculturazione ( = discernimento, adattamento, rinnovamento, replanteo, creatività) delle opere carismatiche. Abbiamo interessanti esperienze a cui anche altre Congregazioni guardano.  Vanno prendendo corpo alcune innovazioni nelle modalità di gestione; si cerca di realizzare il nuovo ruolo dei religiosi nelle opere; la collaborazione dei laici è più organica; c’è una nuova attenzione alla formazione dei dipendenti; si cura il rapporto apostolico dell’opera con il territorio.

Dobbiamo continuare sulla via della identificazione carismatica e apostolica delle opere di carità in modo tale che possano essere carismatiche e apostoliche anche nel contesto sociale attuale secolarizzato. In alcuni casi, si tratterà di lasciare certe opere non convertibili o non convertite in strumenti di apostolato. Se non sono pulpiti, le opere diventano tombe dell’apostolicità.

So che la evoluzione delle opere ha creato e crea tensione di interpretazione e di soluzioni. È inevitabile, perché non ci sono soluzioni immediatamente evidenti. Il cambio della nostra relazione con le opere ci impegna, ci provoca, e qualche volta anche ci scoraggia. Però siamo lì, la Congregazione è lì, ad affrontare il cambio. Serve il dialogo e lo scambio di esperienze positive. Va delineandosi un cammino comune con le indicazioni degli ultimi due Capitoli generali e l’azione dei Segretariati.
Questo Convegno “La sfida della carità” giunge a conclusione di una tappa importante di questo percorso che, nel sessennio 2010-2016, si è concentrato sul consiglio d’opera, sugli indicatori del bilancio apostolico e sulla formazione dei laici collaboratori. Non dobbiamo essere né catastrofici (“Basta, è finita l’epoca delle opere”) né illusi (“Le opere parlano da sole”). Nessuno si ponga “fuori” del tema, ma offra il proprio contributo di idee e soprattutto la collaborazione pratica nelle singole comunità e nelle attività, nella partecipazione ai segretariati e nel cammino di Congregazione.

 

4.   In un contesto sociale e culturale di servizi senza relazione e di prassi senza visione dell’uomo,
siamo stimolati a vivere e attuare il servizio educativo e assistenziale

come relazione da persona (operatore) a persona (destinatario) a persone (familiari, territorio, società).

Saremo capaci di passare dal servizio > alla carità,  dalla carità > all’annuncio di Dio (faro di fede) e dell’uomo (faro di civiltà)?

L’inscindibile dinamica di amore agli uomini e di amore a Dio ci fa capire come le opere di carità svolgano il prezioso e contemporaneo ruolo di personalizzazione / socializzazione umana e civile e di evangelizzazione della Provvidenza di Dio.
Ciò è ancor più necessario ed efficace oggi, in un’epoca di nihilismo e di pensiero debole (e di fede debole ) che rendono le relazioni deboli, la società debole.
Questo scopo ulteriore (personalizzazione ed evangelizzazione) rispetto alla finalità specifica educativa e assistenziale è intrinseco alla missio delle opere di carità orionine. Esso chiede che le istituzioni della Piccola Opera siano concepite, modellate e gestite curando contemporaneamente la qualità dei servizi, la carità delle relazioni e il ruolo apostolico,  cioè il bene della città, la relazione con Dio.

Il Piccolo Cottolengo di Genova – annunciava Don Orione - diventerà la 'cittadella spirituale di Genova'. Altro che la lanterna che sta sullo scoglio! Il Piccolo Cottolengo sarà un faro gigantesco che spanderà la sua luce e il suo calore di carità spirituale anche oltre Genova e oltre l'Italia”.[17]
Nel mondo orionino è molto usuale definire le opere di carità come “fari di fede e di civiltà”. Ma stiamo attenti a non concepire il faro come un monumento o un gioiello da guardare e di cui compiacersi. La dinamica di faro è  possibile se al Piccolo Cottolengo, e in qualunque altra opera al servizio della vita, c’è luce all’interno, cioè servizio competente, qualità di vita, fede, amore fraterno, vita bella, e se attua dinamiche di relazione con la città, con persone e territorio, che costituiscono il tessuto civile di cui l’opera è parte e a cui è destinata come suo fine ulteriore.
In realtà, se un'opera non avesse luce di caritas e se fosse autoreferenziale, chiusa in se stessa, perché non comunica favorendo relazioni con famiglie, amici, parrocchie, organismi laici, società civile, Chiesa… sarebbe un’opera orioninamente morta, perderebbe la sua dinamica di “faro” che diffonde luce fuori, lontano, luce di civiltà e di fede. Le opere cesserebbero di essere “pulpito” apostolico e “cattedra” di civiltà, per dirla con immagini care a Don Orione.

Oltre al servizio educativo e assistenziale, dunque, è necessario trovare il linguaggio e le relazioni per raccontare al mondo, certo con umile pudore ma anche con convinzione e decisione, l’esperienza di vita nuova e di nuovo umanesimo vissuto secondo la legge fondamentale del servire e dell’amare.
Niente falsi pudori e timidezze, “bisogna che vi buttiate ad un lavoro che non sia più solo il lavoro che fate in chiesa” e nelle opere della chiesa.[18] Non dobbiamo però seguire l’idolo della visibilità che oggi porta a esibizionismo, con le tecniche di ingigantimento e di falsificazione mediatica. Si tratta semplicemente di essere in relazione con la società, come il sale e il lievito o anche come la luce che “non si accende per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa”.[19]

Questa attenzione a tutti, il tutti sociale, è molto tipico di Don Orione che sempre coniugava carità personale e carità sociale, carità verso i prossimi e passione per i lontani.
Don Ignazio Terzi, quarto successore di Don Orione, ha raccontato che, ancora laico, faceva parte di un gruppetto di giovani universitari accompagnati dal Padre fondatore in visita al Piccolo Cottolengo di Genova. Don Orione, dopo averli lasciati per andare a intrattenersi con alcune persone distinte della città, ritornando disse loro: "Vedete, questa opera è certamente per questi poveri che vi sono ospitati, ma, vorrei dire che, ancor più, è per quelli là, perché vedano e apprendano la carità e si avvicinino a Dio".
Parlò anche di un noto personaggio di Genova: "Salvatore Sommariva mi ha detto: Non credevo in Dio, ma ora ci credo perché l'ho visto alle porte del Cottolengo".[20] Ciò corrisponde a quanto affermava Sant’Agostino ”Se vedi la carità, vedi la Trinità”, ricordato da Benedetto XVI in Deus caritas est 19, dove parla dei “santi sociali” (n.40), tra i quali è nominato Don Orione.[21]
A Don Giuseppe Adaglio, dava direttive per l'avvio della Piccola Opera in Palestina: "Stare lì unicamente per fare gli amministratori del Patriarcato… non è il fine della nostra Congregazione. Bisogna che su ogni nostro passo si crei e fiorisca un'opera di fraternità, di umanità, di carità purissima e santissima, degna di figli della Chiesa nata e sgorgata dal Cuore di Gesù: opere di cuore e di carità cristiana ci vogliono. E tutti vi crederanno! La carità apre gli occhi alla Fede e riscalda i cuori d'amore verso Dio".[22]

 

5.   Dal contesto sociale e culturale che produce lo “scarto” dei poveri,
viene la sfida di nuove ri-partenze verso “i più poveri e desamparados”.

Nell’attuale contesto sociale ed ecclesiale, Papa Francesco promuove una “Chiesa in uscita”;[23] il suo ripetuto “andare alle periferie[24] è molto simile al “fuori di sacrestia” tanto caro a Don Orione. Come nel primo Novecento, anche oggi è necessario avere il coraggio cristiano di “primerear – prendere l’iniziativa”,[25] se si vuole essere culturalmente e cristianamente interessanti.
Papa Francesco convoca ad un maggiore coinvolgimento sociale, ad una più autentica e fattiva vicinanza ai poveri, alla gente umile, alle tante categorie umane divenute “scarto[26] della società attuale economicamente selettiva.[27] È la medesima sfida che si trovò ad affrontare la Chiesa italiana ai tempi di Don Orione. L’esperienza di Don Orione di inizio Novecento costituisce un criterio interpretativo e progettuale nella Chiesa d’oggi, innanzitutto per gli Orionini.

Voi qui presenti siete in grandissima maggioranza protagonisti della strategia apostolica orionina “mediante le opere di carità” attuata nelle istituzioni educative e assistenziali. Pochi di voi sono rappresentanti di quelle “nuove risposte, agili e snelle, meno istituzionali”, di “istituzioni flessibili” di cui parla il Capitolo generale, che pure ha riconosciuto che “alcuni confratelli, ripercorrendo l’epopea dei padri, hanno osato intraprendere vie nuove sia verso luoghi di frontiera, sia verso povertà emergenti”.
In un convegno sulle opere educative e caritative non possiamo non parlare delle opere… che non ci sono, cioè delle ri-partenze nelle nuove frontiere o periferie dei “desamparados”.
La decisione 28 del Capitolo generale dice che “Ogni provincia, discernendo nella propria realtà le forme con cui la vita è più minacciata (vita nascente, vita debole, immigrati, ecc.), definisca le azioni più significative per la sua difesa. In tutte le nostre opere (educative, assistenziali, parrocchiali) ci siano segni di accoglienza e interesse alle povertà dei desamparados (abbandonati)”.

Questo “andare alle periferie” dei poveri “scartati” dalla società, dei poveri “fuori legge” di assistenza, degli “sprovvisti” di provvidenze umane, è intrinseco alla dinamica carismatica orionina.
Don Orione diede direttive chiare: Noi siamo per i poveri, anzi per i più poveri e più abbandonati.[28]Devo ben chiarire che noi siamo i preti dei poveri, e siamo per i poveri più infelici e abbandonati: per quelli cioè che sono i così detti rottami, il rifiuto della società”.[29]  “Quelli che hanno protezione da altra parte, per loro v’è già la provvidenza degli uomini, noi siamo della Provvidenza divina, cioè non siamo che per sopperire a chi manca ed ha esaurito ogni provvidenza umana”.[30]
E’ tipico dell’azione caritativa di Don Orione incominciare sempre dai più poveri, dai più deboli, dai più “desamparados” e privilegiare l’aiuto dei bisogni primari  quando questi manchino (la vita, il pane, un tetto, la salute, la famiglia, ecc.).

Anche oggi, in qualunque nazione siamo, l’incominciare dai più poveri è una scelta permanente e da rinnovare con continue “ri-partenze”. La Congregazione si rinnova proprio con queste ri-partenze dai più poveri, sia in nazioni di nuovo arrivo (pensiamo all’Albania, Romania, Kenya, Messico, Filippine, India, Mozambico e altre) e sia in nazioni di antica presenza, con iniziative per categorie di poveri del tutto sprovveduti (uomini e donne senza casa e senza altri beni essenziali, meninos da rua, immigrati, disadattati, ecc.).

Certamente Don Orione unì alla carità come “pronto soccorso” la carità come “promozione dei poveri”,[31]  una “carità illuminata che nulla rigetterà di ciò che è scienza, di ciò che è progresso, di ciò che è libertà, di ciò che è bello, che è grande e che segnò l’elevazione delle umane generazioni”.[32] Coniò l’espressione “scienza caritativa[33] per dire la compenetrazione nei contenuti e nelle finalità tra scienza/verità e carità.
La Congregazione, nei tempi attuali, è di fronte alla sfida di vivere, contemporaneamente e in relazione tra loro, la carità di “pronto soccorso” e la carità di “promozione specializzata”. Sono due dinamiche diverse e complementari: il partire dai bisogni primari dei più poveri assicura l’ancoraggio esistenziale alla “specializzazione nella carità”.
Mi pare che oggi, di fatto, la Congregazione ha bisogno di incrementare di più le nuove ri-partenze dai bisogni primari dei poveri “sprovveduti di ogni provvidenza umana”. Soprattutto nella nazioni di più consolidata tradizione.
Tutti i nostri recenti Capitoli generali hanno proposto come ordinaria programmazione del nostro apostolato gli “interventi relativi alle nuove urgenze di povertà”.

 

6.   In un contesto sociale ed ecclesiale di “gnosi religiosa”,
siamo chiamati a “toccare la carne di Cristo”, a “vedere e servire Cristo nei poveri”.

Papa Francesco descrive questo contesto di “gnosi religiosa” (o “mondanità spirituale”)[34] in Evangelii Gaudium 93-97 ove parla di “gnosticismo della fede rinchiusa nell’immanenza della propria ragione e sentimenti”, di “neopelagianesimo autoreferenziale e prometeico”, “elitarismo narcisista e autoritario”, “cura del prestigio della Chiesa senza reale inserimento del Vangelo nel Popolo di Dio”, di “funzionalismo manageriale”, “autocompiacimento egocentrico”, di ”maestri spirituali ed esperti di pastorale del si dovrebbe fare che danno istruzioni rimanendo all’esterno”.[35]

Come antidoto alla “gnosi religiosa”, Papa Francesco invita a  “toccare la carne di Cristo”, ad “entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri” (EG 270).
Rivolgendosi a noi Orionini, nel 2009, il card. Bergoglio ricordò che “la frontiera esistenziale di Dio è il Verbo venuto nella carne, è la carne del Verbo. È  questo che ci salva da ogni eresia, dalla gnosi, dalle ideologie, ecc. Cercate la carne di Cristo lì. Andate alle frontiere esistenziali con coraggio… per esempio nei Cottolengo… quello che fate con i bambini di strada… sono le frontiere esistenziali... perdere tempo per il ritardato mentale, per l'infermo ed il terminale; perdere il tempo, consumare il tempo con loro, perché sono la carne di Gesù”.

“Toccare” significa proprio “toccare” la carne di Cristo, “mettere il dito”, entrare in contatto diretto, personale, con i piccoli, con i poveri. Papa Francesco parla spesso dell’”odore delle pecore” che i pastori devono avere. Prende l’odore delle pecore – ha spiegato in EG 24 - chi “si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, chi accorcia le distanze, chi si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo. Gli evangelizzatori hanno così odore di pecore e queste ascoltano la loro voce”. Per noi Orionini significa avere odore di Cottolengo, odore di cortile, scarpe sporche delle strade di periferia.
Religiosi e laici della Piccola Opera non dobbiamo rinunciare all’“alto privilegio di servire Cristo nei poveri”:[36] in modo organizzato e articolato certo, ma anche in modo personale e diretto, corpo a corpo, anima ad anima.

Per noi Orionini è molto importante sentire ribadito oggi dal Papa a tutta la Chiesa che “toccare la carne del Verbo” facendoci prossimi a quelli che sono “i rottami della società”, “i poveri più poveri”, “lo scarto della società”, è in se stesso esperienza di Dio ed evangelizzazione.
Don Orione ci ha trasmesso la coscienza che quando avviciniamo e aiutiamo un fratello in necessità o quando compiamo uno dei tanti gesti o uffici nelle opere di carità, noi facciamo esperienza di Dio (“vedere e servire Cristo nell’uomo”) ma anche opera di evangelizzazione, perché “la carità apre gli occhi alla fede e riscalda i cuori di amore verso Dio”. Nella comunicazione popolare, mi capita sovente di ricordare due immagini usate dal Fondatore: Dobbiamo essere preti di stola e di lavoro” e “accanto ad un’opera di culto sorga un’opera di carità”. Sono due immagini che bene esprimono il dogma orionino dell’unione di evangelizzazione e ministero della carità nella nostra missione.

“Dal cuore del Vangelo – scrive il Papa - riconosciamo l’intima connessione tra evangelizzazione e promozione umana, che deve necessariamente esprimersi e svilupparsi in tutta l’azione evangelizzatrice” (EG 178). Il servizio della carità è parte integrante della vita della Chiesa, come ha insistentemente insegnato Papa Benedetto XVI. Infatti, «L'intima natura della Chiesa si esprime in un triplice compito: annuncio della Parola di Dio (kerygma-martyria), celebrazione dei Sacramenti (leiturgia), servizio della carità (diakonia). Sono compiti che si presuppongono a vicenda e non possono essere separati l’uno dall’altro» (Deus caritas est, 25).

           

7.   In un contesto sociale e culturale in cui “Dio è morto” e anche “il mondo si sente male”,
siamo chiamati a vivere, noi e le nostre opere, con fiducia nella Divina Provvidenza.

Introduco questa settima e ultima sfida facendo eco a una nota battuta di Woody Allen: “Dio è morto... e anch’io non mi sento tanto bene”. [37]
La sfida madre di tutte le sfide d’oggi è quella di vivere la vita di Dio in un mondo in cui “Dio è morto” e si vive come se Dio non ci fosse (“etsi Deus non daretur”). Il nostro dono e annuncio è quello di essere figli della Divina Provvidenza in un mondo che sembra implodere in se stesso, nella sua solitudine senza speranza.

All’inizio del secolo scorso, Robert Hugh Benson, nel suo romanzo Lord of the world (Il padrone del mondo) aveva previsto il venir meno della fede cristiana non a causa di una cruenta persecuzione pubblica ma attraverso l’umanitarismo secolarista. Per usare le parole di Benson, la carità sarebbe stata sostituita dalla filantropia, la fede sarebbe stata spodestata dalla cultura, la speranza dalla soddisfazione.
La risposta a questa sfida è la fiducia nella Divina Provvidenza. Un carisma evangelico serve proprio quando quel valore evangelico è in crisi. Come serve un ricostituente soprattutto quando il corpo è debole.

“La Divina Provvidenza pare nascosta all'uomo – scrive Don Orione -, perché l'uomo la vede e molte volte non l'ama, la tocca e molte volte non la crede; essa lo veste meglio che i gigli del campo e gli dà da mangiare, ed egli crede di essere nudo e digiuno. Essa governa il mondo con legge armonica ed eterna, si nascon­de e non si fa vedere a colui cui manca la fede, quantunque egli sia ricco di mezzi materiali e di vasta mente e di molta cultura”.[38]

Molte pagine di Don Orione sono l’eco della sua inquietudine apostolica di fronte al disorientamento delle masse umane confuse da ideologie e traviate da costumi che portano all’“apostasia della fede”.          
Anche nei nostri ambienti cristiani è più facile parlare della trascendenza di Dio che della sua provvidenza. La fiducia nella Divina Provvidenza fu invece il centro dinamico della esperienza di Don Orione e del suo carisma, fu il motivo ispiratore del suo apostolato e della sua Fondazione. “Sì, Opera della Divina Provvidenza: proclamare contro il materia­lismo storico "Tua Providentia omnia gubernat". La Provvidenza Divina è la continua creazione delle cose".[39]

Benedetto XVI, costituendo il nuovo Pontificio Consiglio per la promozione della Nuova Evangelizzazione, dopo avere elencato le attuali inumane conseguenze della vita vissuta «come se Dio non esistesse» ("etsi Deus non daretur"), afferma che “per proclamare in modo fecondo la Parola del Vangelo, è richiesto anzitutto che si faccia profonda esperienza di Dio”.[40] Infatti, “Dio non si può far conoscere con le sole parole. Non si conosce una persona, se si sa di questa persona solo di seconda mano. Annunciare Dio è introdurre nella relazione con Dio. Solo nell'esperienza della vita con Dio appare anche l'evidenza della sua esistenza”.[41]

In queste parole troviamo la stessa concretezza voluta da Don Orione: “vivere e far sperimentare la Provvidenza di Dio mediante le opere di carità”. “In Don Orione – l’osservazione è di Giovanni Paolo II - lo zelo sacerdotale si coniugava con l'abbandono nella Provvidenza divina, cosi il segreto della sua esistenza e della sua molteplice attività riposava in una illuminata fiducia nel Signore, poiché “l'ultimo a vincere è Lui, Cristo, e Cristo vince nella carità e nella misericordia” (Lettere II, 338).  Nei suoi istituti, rivive il genio della carità di Don Orione che si tradusse, come peculiare carisma, nella fiducia nella Divina Provvidenza. Gli uomini del nostro tempo, ass­etati di verità e di amore, hanno bisogno di incontrare testimoni".[42]
Ecco la parola chiave: testimoni, figli della Divina Provvidenza.

Abbiamo detto sopra che le opere di carità devono essere “di provvidenza” e non solo “di previdenza” perché possano manifestare la Provvidenza di Dio. Ebbene, anche la nostra azione personale e istituzionale, la nostra “piccola opera” della Divina Provvidenza mediante le opere di carità, non deve consistere in un’azione umanamente “potente”, quasi palliativa di quella di Dio, ma “umile, semplice, povera” perché meglio appaia che “chi fa tutto è Iddio e la sua Provvidenza!”.[43]

La nostra vita e i segni di provvidenza (le opere di carità) servono per stendere sempre le mani e il cuore a raccogliere pericolanti debolezze e miserie e porle sull'altare, perché in Dio diventino le forze di Dio e grandezza di Dio”.[44] Solo così le opere della carità evangelizzano la Divina Provvidenza e  “aprono gli occhi della fede e muovono i cuori verso Dio”.[45]  La nostra gioia grande è quando la gente batte le mani a Dio e non a noi: “vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli” (Mt 5, 16).

Religiosi (e collaboratori) pieni di Dio e non pieni di sé. Don Orione, nel formare i figli della Divina Provvidenza (religiosi, suore e laici), aveva un punto di partenza e di arrivo imprescindibile: l’umiltà. Su questo punto insisteva, giudicava e anche scartava. Quando diceva o scriveva di uno che “è pieno di sé” equivaleva a giudicarlo non idoneo alla “Piccola Opera della Divina Provvidenza”.
Senza umiltà non c’è vita di Dio, non ci sono Figli della Divina Provvidenza ma protagonisti autocentrici, euforici o… depressi, apostolicamente inutili.

Teniamo bene a mente che l’umiltà è una virtù personale ma anche un valore/indicatore istituzionale. Cioè qualifica le persone e costituisce l’identità delle opere di Congregazione.
Piccola Opera della Divina Provvidenza, Figli della Divina Provvidenza, Piccolo Cottolengo, Piccole Suore Missionarie della Carità: “nomen est omen”, nel nostro nome è indicata la nostra vocazione, l’identità e lo stile.
La fiducia nella Divina Provvidenza - tratto identificante la personalità di Don Orione e della Piccola Opera - è la profezia necessaria nell’attuale contesto sociale ed ecclesiale.

 


[1] Nel famoso Capitolo I delle Costituzioni scritto da Don Orione il 22.7.1936 e nelle attuali Costituzioni, art. 120, si parla di “quelle opere di fede e carità che, secondo i bisogni dei paesi e dei tempi… più atte a rinnovare in Gesù Cristo la società”. 

[2] È definito pensiero debole perché incapace di giungere alla verità, a ciò che è naturale, razionale, e tutto si riduce a opinione.

[3] Elio Sgreccia distingue 5 modelli antropologici che giungono a logiche conseguenze di disumanizzazione e di morte: modello non-cognitivista (non si può conoscere verità e valori assoluti sull’uomo), modello pragmatico-procedurale (è etico ciò che è secondo le procedure), pragmatico-utilitaristico (è etico ciò che è utile), socio-biologista (valori ed etica sono in evoluzione culturale), liberal-radicale (fondato sulla assoluta libertà soggettiva). Sono tutti modelli di etica senza verità. Cfr i miei appunti su Antropologia orionina e servizio alla vita debole pubblicato come articolo in “Che gran cosa è l’uomo perché te ne curi! Le opere assistenziali tra etica e carità”, “Messaggi di Don Orione” 2013, n.140, p.43-55.

[4] Scriveva Don Orione: “Viviamo in un secolo che è pieno di gelo e di morte nella vita dello spirito. Tutto chiuso in se stesso, nulla vede che piaceri, vanità, passioni e la vita di questa terra, e non più. Chi darà vita a questa generazione morta alla vita di Dio, se non il soffio della Carità di Gesù Cristo? La faccia della terra si rinnovella al calore della primavera; ma il mondo morale solo avrà vita novella dal calore della Carità”; lettera del 2 maggio 1920, in Nel nome della Divina Provvidenza, p.39.

[5]Omnia vincit amor et nos cedamus amori” (L'amore vince tutto, anche noi cediamo all'amore) è una espressione molto laica del poeta latino Virgilio. Don Orione la citò più volte e la commentò, a suo modo, riferendola all’amore di Cristo e all’amore fraterno.

[6] Il riferimento alla verità era per Don Orione strettamente collegato carismaticamente al verità della dottrina cristiana trasmessa dalla Chiesa e dal Papa.

[7] Scritti 97, 154. E’ la stessa attrattiva del bene di cui parlava il profeta Zaccaria (8, 23): «In quei giorni, dieci uomini di tutte le lingue delle genti afferreranno un Giudeo per il lembo del mantello e gli diranno: Vogliamo venire con voi, perché abbiamo compreso che Dio è con voi».

[8] Scritti 53, 3.

[9] Più che di una nuova etica mondiale oggi dobbiamo parlare della dissoluzione dell’etica mondiale che sta lasciando il passo semplicemente a una prassi individualistica, facilmente indotta da gruppi ideologici e di pressione comunicativa che orientano l’opinione pubblica. Oggi non siamo entrati nel pluralismo etico ma nella confusione etica di ciò che è umano. I fondamenti e le evidenze filosofiche e del realismo del buon senso su ciò che è umano non interessano più e non sono più sufficienti a fondare un’etica veramente umana.

[10] Questo epiteto gli fu attribuito da Papa Giovanni Paolo II nell’omelia della Messa di canonizzazione (16 maggio 2004): “Il cuore di questo stratega della carità fu «senza confini perché dilatato dalla carità di Cristo»”. "Tanti non sanno capire l'opera di culto – argomentava Don Orione - e allora bisognerà unire l'opera di carità. La carità apre gli occhi alla fede e riscalda i cuori d'amore verso Dio. Opere di carità ci vogliono: esse sono l'apologia migliore della fede cattolica"; Riunioni p.81 e 85.

[11] Scritti 94, 202.

[12] Nel Capo I delle Costituzioni scritto da Don Orione (1936) e nell’art. 5 delle attuali Costituzioni.

[13]I Figli della Divina Provvidenza vivono della mercede di Dio, della vita di lavoro e di povertà, solo, dobbiamo essere per i poveri, per i più poveri, per i rifiuti, per los desamparados (per gli abbandonati) della società”; da Spirito di Don Orione V, 107.

[14] Ho riflettuto su questo tema fondamentale per il nostro carisma nella circolare “Quali opere di carità?”, “Atti e comunicazioni” 2005, n.217, p.111-132.

[15]Fiduciosi nella Divina Provvidenza, portare i piccoli, i poveri, il popolo alla Chiesa e al Papa, per Instaurare omnia in Christo, mediante le opere di carità”; è la formula carismatica trasmessa in spirito, parole ed esempi da Don Orione.

[16] Si veda in particolare le Decisioni 16 e 17 e la Linea operativa 20 del CG13.

[17] Lettere I, 53 7.

[18] Facendo relazione di una riunione di un Circolo cattolico, Don Orione scrisse: “Si deliberò nel Signore di non stare più tristemente guardando, o fors’anco criticandoci tra noi, poiché la società invoca un rimedio ai suoi mali... Si parlò della urgente necessità e dovere di gettarci nel fuoco dei tempi nuovi, per l’amore di Gesù Cristo e del popolo, nonché del Paese,  poiché l’umanità ha oggi supremamente bisogno di ristorarsi nella fede, e di rivivere nella carità”; Scritti 64, 161.

[19] “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli” (Mt 5, 16)

[20] Riunioni 130; Don Orione lo definì “uno spregiudicato, che non può vedere né vuole sapere niente di religione” (Parola IX, 425); poi divenne un generoso benefattore del Piccolo Cottolengo di Genova.

[21] Don Orione raccontò la conversione di una anziana donna convertita al Piccolo Cottolengo di Claypole, la quale gli spiegò: "come posso non credere alla fede e alla religione della Suora che dorme per terra vicino al mio letto e che si leva 20-30 volte ogni notte per darmi da bere e per servirmi… più che fosse mia figlia? (...) Vedete? – concludeva Don Orione -, quella donna è stata spinta alla fede dalla carità sovrumana della suora"; Parola VIII, 195-196.

[22] Scritti 4, 280.

[23] Evangelii Gaudium 46 e 261 e in molti altri passaggi.

[24] “Tutti siamo invitati ad accettare questa chiamata: uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo”; Evangelii Gaudium 20.

[25] Evangelii Gaudium 24.

[26] Evangelii Gaudium 53 e 95. Papa Francesco, nel 2009 ancora Vescovo di Buenos Aires, indicò direttamente a noi Orionini questo movimento: “Voi dovete andare con il carisma di fondazione alle periferie esistenziali, là dove l'esistenza delle persone è  materia di scarto. Voi sapete che state in questo sistema che è mondano, paganizzato: ci sono quelli che ci stanno e quelli che avanzano; quelli che non ci stanno nel sistema avanzano, e quelli che avanzano sono di scarto. Queste sono le frontiere esistenziali. Lì dovete andare voi”; Videomessaggio del card. Jorge Bergoglio al Capitolo provinciale degli Orionini, Buenos Aires, 9 novembre 2009, pubblicato in “Atti e comunicazioni della Curia generale”, 2013, n.241, p.103-105.

[27] In EG 199: “Senza l’opzione preferenziale per i più poveri, «l’annuncio del Vangelo, che pur è la prima carità, rischia di essere incompreso o di affogare in quel mare di parole a cui l’odierna società della comunicazione quotidianamente ci espone ».[170]

[28] Scritti 62, 32.

[29] Scritti 75, 123.

[30] Scritti 97, 251.

[31] Cost. 118.

[32] Scritti 111, 125. Citando il Pasteur, Don Orione afferma: “La salvezza, non solo degli ospedali ma del mondo, sta sotto le due grandi ali: carità e scienza”; Scritti 61, 169. Parlando del principale istituto di carità di Genova, destinato a disabili gravi fisici e psichici, scrive: “Io vorrei fare di Paverano un Istituto di cui la Provincia e Genova abbiano sempre più ad onorarsi: carità e scienza!” (47, 245).

[33] Scritti 57, 169.

[34] La mondanità spirituale “è una tremenda corruzione con apparenza di bene. Bisogna evitarla mettendo la Chiesa in movimento di uscita da sé, di missione centrata in Gesù Cristo, di impegno verso i poveri. Dio ci liberi da una Chiesa mondana sotto drappeggi spirituali o pastorali!” (EG 97).

[35] “L’idea staccata dalla realtà origina idealismi e nominalismi inefficaci, che al massimo classificano o definiscono, ma non coinvolgono. Ciò che coinvolge è la realtà illuminata dal ragionamento. (…) Vi sono… dirigenti religiosi che si domandano perché il popolo non li comprende e non li segue, se le loro proposte sono così logiche e chiare. Probabilmente è perché si sono collocati nel regno delle pure idee e hanno ridotto la politica o la fede alla retorica. Altri hanno dimenticato la semplicità e hanno importato dall’esterno una razionalità estranea alla gente. La realtà è superiore all’idea” (EG 232-233).

[36] Don Orione fece sua questa espressione di Padre Felice, un personaggio dei Promessi sposi del Manzoni; Scritti 70, 228; 86, 100; 95, 213, 97, 269.

[37] Woody Allen riprendeva l’affermazione di Friedrich Nietzsche "Dio è morto" (Gott ist tot, "La gaia scienza", 1882, sezione 125) accostandovi ironicamente la constatazione che (se) Dio è morto neppure l’uomo si sente tanto bene. Erich Fromm con altro tipo di realismo ha osservato che «Nel diciannovesimo secolo il problema era che Dio è morto; nel ventesimo secolo il problema è che l’uomo è morto».  

[38] Lettere scelte, p.20-21.

[39] Scritti 68, 418.

[40] Lettera Apostolica Ubicumque et semper (21.9.2010).

[41] Catechesi di J. Ratzinger al Convegno dei catechisti e dei docenti di religione, Roma, 10 dicembre 2000.

[42] Riportato in Sui passi di Don Orione, p.33.

[43] Scritti 68, 148; lettera del 16 marzo 1933. Sono innumerevoli simili affermazioni nel parlare e scrivere di Don Orione. Sono testimonianza del clima interiore in cui operava.

[44] Nel nome della Divina Provvidenza, p.82.

[45] Scritti 4, 280.

 

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